C’è da ammetterlo, il merito va a eBay. Correva l’anno 1995 e la formula di vendita digitale legata al second hand sembrava proprio una mission impossibile. Da lì, la rivoluzione. E, da allora il business dei negozi vintage online è in continua ascesa. Ha cambiato forme, dimensioni, applicazioni, ma non ha mai avuto una battuta di arresto. Anzi. Oltre ad aver riesumato i tesori nascosti accumulati in soffitta, ha in qualche modo ridato un senso al concetto di moda nel suo senso più ampio. Ma non solo. Negli ultimi anni, la moda second hand ha partecipato attivamente alla narrativa sulla moda sostenibile, trovando consensi e dinieghi. Dai comò della nonna abbiamo imparato a frugare e rivendere anche capi e accessori più recenti, e il fenomeno ha preso a macchia d’olio tutti i brand. Arrivando persino al mass market. Fino all’ultima breaking news in materia: Shein, il brand di ultra fast fashion, lancia il canale second hand. E la domanda sorge spontanea: sostenibilità o greenwashing?
Quello che sappiamo su Shein Second Hand
Lunedì, il colosso cinese della moda fast fashion ha lanciato una nuova piattaforma disponibile per ora solo per il mercato americano. L’opportunità? Quella di acquistare e ri-vendere i loro vecchi capi direttamente attraverso l’app. A darne l’annuncio è Business of Fashion in un breve articolo in cui spiega quel che, per ora, si conosce di questa operazione di cui sentiremo molto parlare. Così leggiamo: «Questa mossa è sia un modo per costruire un punto di riferimento in un mercato di consumo in rapida crescita, sia parte di una serie di sforzi progettati per combattere le critiche secondo cui il loro modello di business veloce e a basso costo è l’antitesi degli sforzi per fare moda più sostenibile». Secondo Bof, per grandi marchi come Shein, «è improbabile che la rivendita diventi un grande generatore di entrate in tempi brevi. Ma offre un motivo convincente per far tornare i clienti. Potenzialmente aprendo nuovi punti di contatto con i consumatori e creando coinvolgimento». Fidelizzare quindi sembra essere la parola d’ordine. Ma anche riallinearsi con i nuovi diktat di sostenibilità, considerato che «Shein è stata molto attaccata per non essere un marchio sostenibile. È stato al microscopio per un po’ di tempo…».
Il boom della moda second hand
Acquisti fatti d’impulso e rimasti con il cartellino nell’armadio per mesi. Regali sbagliati, abiti e accessori che non ci stanno o aggradano più. Una cosa è certa: il grande successo che le app per vendere vestiti usati stanno avendo negli ultimi anni ha assolutamente senso. La recessione e la crisi climatica sono le prime motivazioni plausibili che vengono in mente. Ma, fare posto nell’armadio e vendere quello che non va bene per noi ha più di un vantaggio. Oltre a regalarci spazio e ordine, il primo è senza dubbio rappresentato da una più o meno piccola fonte di guadagno extra. Il secondo è che si tratta di uno shopping sostenibile. Perché rimette in circolo una grande quantità di abbigliamento senza i costi e i danni ambientali della produzione e della messa in vendita.
Così, da Depop a Vinted, da Vestiaire Collective a Rebelle siamo in piena epoca second hand. Ma non solo. Sono molti i brand e i marketplace che hanno aggiunto l’opzione della vendita dell’usato. Sono circa 100 i marchi e rivenditori che hanno lanciato i propri canali di rivendita negli ultimi due anni. Secondo l’analisi di BoF condotta a maggio. Da Balenciaga e Valentino, a Zalando Second Hand. Fino ai rivali di Shein H&M e PrettyLittleThing.
Fast Fashion & Second Hand
Siamo tutti d’accordo: una cosa è un vintage di Chanel o Dior, e un’altra è un (chiamiamolo) vintage di Shein. E ancora: il secondhand sta per diventare il nuovo fast fashion? O c’è posto per tutti? L’opinione generale, a prescindere da tutto, era che una maggiore circolarità degli abiti, acquistati e poi rivenduti, potesse allungarne la vita. Rendendo quindi la moda più democratica e meno usa e getta. Nonostante questi preamboli, però, i dubbi sono molti. Da un lato ci sono le nuove generazioni (ma non solo) di consumatori oramai abituate all’overconsumption. Dall’altro le aziende che, nonostante le nuove politiche sostenibili, rimangono legate all’overproduction. E quindi?
Come ha scritto su Vogue Business la giornalista Rachel Cernansky: «Sebbene la rivendita offra un percorso per prolungare la vita degli abiti usati, il modello non tiene conto di ciò che accade agli abiti quando vengono scartati, né garantisce che gli abiti siano prodotti in modo più sostenibile. Né ha alcuna influenza sui volumi di abiti nuovi prodotti o venduti sul nuovo mercato». Insomma, detto in una parola: la linea di confine tra sostenibilità e greenwashing di queste operazioni si fa labile. Ma tant’è. Ai posteri l’ardua sentenza.
Amica ©RIPRODUZIONE RISERVATA